I Principi del Lionismo

I principi ispiratori del lionismo
Di Sergio Maggi
Direttore Internazionale 2004-2006.

Parte prima
Premessa – E’ convinzione generale che il senso di appartenenza ad una organizzazione sociale, scaturisca dalla capacità interrelazionale e partecipativa dei suoi membri alla vita organizzativa, ma, soprattutto, dalla condivisione di quegli interessi comuni che muovono gli scopi istituzionali di tali organizzazioni. Tale senso di appartenenza diverrebbe certamente molto più profondo e più radicato, qualora la nostra attenzione si rivolgesse non solo verso la conoscenza di quelli che sono o sono stati i fondamenti valoriali, i principi ispiratori degli scopi associativi, ma anche verso un’analisi di quel contesto storico e culturale nel quale è sorta l’organizzazione oggetto del nostro interesse. Tale premessa diventa ancor più rilevante allorché parliamo della nostra associazione; la nostra, è un’associazione che ha caratteristiche organizzative e finalistiche abbastanza complesse, tale da conferirle la configurazione di organizzazione “open-ended” cioè non finalizzata a scopi specifici e da connotarla come “Associazione di servizio”, distinta dalla comune tipologia associativa. Le associazioni di servizio più importanti e più diffuse nel mondo sono 5 e si sono costituite negli Stati Uniti d’America in un periodo storico che fa riferimento al primo ventennio del novecento e, quindi, ad un periodo particolarmente interessante della storia degli USA (Rotary il 25 febbraio 1905, Kiwanis il 21 gennaio 1915, Lions International il 17 giugno 1917, Zonta International l’8 novembre 1919 e Soroptmist International nel 1921). Gli scopi di queste associazioni presentano alcune identità comuni quali:
– Il sentimento dell’amicizia.
– L’efficienza e la rettitudine nel comportamento professionale.
– La comprensione tra le genti.
– La promozione del benessere civico.
– La promozione della dimensione sociale del bene morale.
Per queste semplici considerazioni, può essere utile intraprendere un percorso conoscitivo, in modo da promuovere una cultura associativa che aiuti a favorire il senso di appartenenza. Senza appartenenza non si costruisce alcun percorso identitario e senza identità qualsiasi dinamica formativa viene vanificata. E’ importante rimarcare il fatto che le associazioni di servizio non sono sorte per la semplice intuizione o per la pattuizione di alcuni gruppi di persone o per finalità rispondenti a bisogni contingenti, ma sono l’espressione di una complessa evoluzione socio-politico e culturale della società statunitense. Quindi per individuare i principi ispiratori degli scopi di queste associazioni, è importante analizzare il contesto storico e culturale nel quale esse sono sorte. E’ utile seguire questo percorso conoscitivo per argomenti e non per sequenza temporale, come suggeriva lo storico Lucien Febvre, iniziando ad accennare alle epiche ed eccezionali origini di quella nazione.
La fondazione degli USA – Il paradigma fondativo degli Stati Uniti, come è a tutti noto, trova la sua genesi storica in quel gruppo di puritani che, fuggendo dall’Inghilterra in seguito alle persecuzioni religiose, approdarono sulle coste del nord America.
Ciò che fu determinante per la nascita della nuova nazione, fu la visione sociopolitica e religiosa di cui questi immigrati furono portatori e la loro volontà di creare una nazione fondata sul senso dell’autogoverno, sul rigore dei valori morali e su quella che Max Weber definì la concezione attivistica della vita del protestantesimo, diversa da quella contemplativa dei cattolici; concezione che contribuì alla nascita del nuovo sistema economico. Questa volontà appare in due documenti fondamentali:
a) Il “Mayflower Compact”, una sorta di contratto sociale firmato dai Padri Pellegrini prima dello sbarco del 1620 sulla costa americana; esso può considerarsi il primo abbozzo scritto di quella che sarà la costituzione americana. Infatti gli ordinamenti di governo creati dai Padri pellegrini furono conservati nella Costituzione federale del 1787.
b) Il “Model of Christian Charity”, in cui John Winthrop, leader dei puritani della seconda ondata migratoria del 1630, indicò nella solidarietà fraterna il principio fondante su cui doveva nascere la nuova società evangelica.
Questo documento ci rende ragione dell’origine di quel profondo senso di altruismo, di spiritualismo che risultano essere alla base delle relazioni sociali e quindi la trama forte della cultura e dello sviluppo dell’associazionismo negli USA, fenomeno che destò l’interesse e l’ammirazione di Alexis de Tocqueville nel suo saggio “La democratie en Amerique”.
Pertanto, sin dalla sua costituzione come stato indipendente (1783), nell’organizzazione sociale americana si assiste al radicamento ed al consolidamento di quei valori umanistici derivati non solo dai principi della riforma protestante e delle sue diverse espressioni, ma anche dai principi del pensiero illuminista, in particolare di John Locke. L’affermazione di valori, quali la libertà, la democrazia e quindi del primato dell’individuo e della solidarietà, favorisce la concezione Jeffersoniana del “minimo Stato”, del rispetto dell’individuo e del libero mercato. Questa concezione liberistica favorì indubbiamente lo sviluppo economico e industriale degli USA.

Seconda parte
Lo sviluppo economico ed industriale – L’evoluzione della storia economica degli USA, considerata, ancora oggi, come la più importante potenza industriale del mondo, affonda le sue radici nel periodo della colonizzazione europea del continente americano avvenuta nel 16°, 17° e 18° secolo. L’economia americana, primariamente marginale, durante il periodo coloniale si trasformò prevalentemente in una economia agricola indipendente ed in seguito in una economia industriale complessa. Dopo la guerra civile (1861-1865), che vide lo scontro fra gli Stati industriali del Nord e quelli agricoli del Sud, lo sviluppo economico iniziò un trend d’ascesa; importanti progressi furono compiuti nella produzione di beni industriali di base ed in seguito, dopo la prima guerra mondiale, in conseguenza del grande progresso tecnologico, le industrie manifatturiere iniziarono a prevalere nelle esportazioni rispetto a quelle delle materie prime. Va sottolineato che con lo sviluppo industriale, anche l’agricoltura trasse vantaggi in quanto divenne più meccanizzata e, quindi, più efficiente.
E’ importante rimarcare, come lo sviluppo economico americano sia stato il frutto di particolari ideali politici e risorse naturali.
Dopo la rivoluzione americana (1775- 1783), che condusse alla indipendenza degli Stati Uniti dalla madrepatria, lo sviluppo politico ed economico degli USA fu fortemente influenzato dalla concezione illuministica del pensiero di Thomas Jefferson. Egli fu un convinto assertore del sistema produttivo agricolo ed il che lo indusse ad impegnarsi affinché ogni cittadino americano potesse acquisire un pezzo di terreno; inoltre, Jefferson fu anche un convinto sostenitore del libero mercato, persuaso che il liberismo potesse garantire un futuro migliore alla nuova nazione.
Dal punto di vista politico, egli sostenne il principio della libertà dei cittadini, dei diritti umani, del pensiero democratico e, soprattutto, fu fautore del sistema federalista nel quale i singoli stati indipendenti, pur usufruendo del principio di autodeterminazione, erano coordinati da un governo centrale, il quale esercitava il potere in ottemperanza agli articoli della Costituzione.
In sintesi, lo sviluppo economico degli Stati Uniti si fonda sin dalle origini sulla libertà d’impresa, protetta dalle norme del capitalismo misto, affrancata da vincoli di ogni sorta; tutto questo è stato favorito dalla realizzazione di un mercato unificato, da una agricoltura notevolmente produttiva, dalle ricchezza delle risorse naturali (legno, carbone, ferro, petrolio), da un moderno ed innovativo spirito imprenditoriale.

Le conseguenze dello sviluppo economico ed industriale – Come già accennato, nel periodo compreso tra la guerra civile e la prima guerra mondiale l’economia americana raggiunse il massimo sviluppo, tanto da superare la Gran Bretagna nella produzione manifatturiera.
Ma accanto allo sviluppo economico, incominciarono a sorgere gravi disagi sociali che furono descritti ed analizzati nel 1873 da Mark Twain e da Charles Dudley Warner nel romanzo “The Gilded Age; a Tale of Today” (L’età dorata; un racconto di oggi). D’altra parte, secondo quanto descritto da Upton Sinclair nel suo romanzo “The Jungle” nel 1903, un’economia che si fonda su un paradigma liberista, completamente svincolato da qualsiasi controllo federale, finisce con il trasformare la società in una giungla di spietati uomini d’affari, dove vige la legge del più forte e dove ciascun individuo compete con l’altro per aggiudicarsi la vittoria in un’arena economica immune da interferenze statali.
Tale trasformazione sociale divenne oggetto di numerose indagini sociologiche, tra le quali la più rilevante fu quella di Thorstein Veblen nel saggio “The Theory of the Leisure Class” (La teoria della classe agiata), edito nel 1899.
Nello stesso periodo, numerosi articoli sui trusts, sulla finanza, sulla corruzione politica e sull’adulterazione dei generi alimentari apparvero su alcune riviste come Mc Clure’s, Everybody’s e Collier’s ad opera di un gruppo di giornalisti definiti muckrakers. Da queste indagini emerse una sorta di darwinismo sociale che determinò un profondo disagio umano, fino a provocare un’anomia sociale che secondo Durkheim indica una carenza di norme sociali efficaci.
In altri termini si determinò un approfondimento del gap tra ceti poveri e ricchi, tale da determinare, come conseguenza, il grave fenomeno della emarginazione, della disoccupazione, della ghettizzazione, oltre che a favorire la grande criminalità organizzata. A rendere più grave il disagio sociale contribuì il fenomeno della urbanizzazione, per cui le città si ingrandirono rapidamente e le municipalità non riuscivano a fornire sufficienti alloggi e servizi alle dense popolazioni. Il fenomeno dell’inurbamento fu aggravato dall’enorme flusso immigratorio verificatosi in quegli anni (circa 37 milioni di individui nel periodo dal 1840 al 1920); il che rese ancora più grave le condizioni di vita nelle grandi città.

Terza parte
Le riforme politiche e sociali – Sin dall’inizio della loro attività governativa, la maggior parte dei leader politici statunitensi, si oppose all’interferenza del Governo federale nel sistema economico privato, adottando il principio del “Laissezfaire”, ideato dagli economisti francesi nel XVIII secolo; tale principio, come già accennato in precedenza, fu sostenuto in particolare da Jefferson. Se tutto ciò, da un lato, ha permesso una accelerazione del processo di industrializzazione, la diffusione del capitalismo finanziario ed industriale, dall’altro, come già sottolineato, ha provocato la creazione di un contesto monopolistico e di grandi imperi economici (trusts), favorendo la corruzione politica, le adulterazioni alimentari e dei farmaci e creando situazioni inumane come un orario di lavoro prolungato ed il lavoro minorile.
Orbene, di fronte a questa realtà che si è andata configurando nella società americana, rientra nella normale evoluzione della fenomenologia sociale il fatto che si dovesse necessariamente verificare la elaborazione di nuove strategie dirette a ridurre il disagio creato da una situazione di anomia conseguente all’assenza di uno stato sociale. Ciò ci fa rendere conto dell’inizio dell’epoca delle riforme.
Nel periodo compreso tra il 1860 e il 1890 si diffuse il fenomeno della protesta degli agrari. Nonostante i notevoli progressi tecnologici, le fattorie americane sperimentarono diverse situazioni conflittuali quali: a) l’assenza di aiuti e di protezioni legislative, b) il contrasto alle esportazioni agricole da parte del protezionismo doganale, c) la sovrapproduzione e, quindi, il calo dei prezzi agricoli in seguito all’espansione della produzione agricola in altri Paesi che determinò una crisi agraria internazionale, d) la difficoltà per gli agrari di ottenere prestiti dalle banche per il costo crescente del denaro); e) gli alti costi richiesti dalle ferrovie per il trasporto delle merci.
Questa situazione determinò una grave condizioni debitoria ed un incremento della povertà tra i contadini e tra i proprietari terrieri.
Nel 1867, su iniziativa di Oliver H. Kelly, funzionario del Dipartimento dell’Agricoltura, venne creata una organizzazione, denominata “Granger movement”, finalizzata alla soluzione dei problemi generali dell’agricoltura; in particolare, a prevenire i bisogni sociali ed a combattere l’arretratezza economica della vita contadina. Questo movimento crebbe notevolmente nei primi anni fino a raggiungere un’affiliazione di un milione e mezzo di membri, organizzati in 20.000 sezioni. Gli scopi originari del movimento furono di tipo formativo, di conoscenza delle nuove tecniche agrarie; successivamente prevalsero gli interessi per i problemi economici e politici per cui furono costituite cooperative finalizzate ad allestire negozi per la vendita dei prodotti ed officine per la costruzione di macchine agricole in molti Stati del Centro; inoltre diversi membri del movimento, eletti nei parlamenti di vari Stati, riuscirono a far emanare delle leggi, note con il termine di “Granger Laws”, finalizzate a ridurre le tariffe ferroviarie e dei magazzini di deposito. Verso la fine del decennio successivo al 1870, vi fu una ripresa dell’economia agricola e, conseguentemente, il movimento diminuì d’importanza e con il tempo molte delle iniziative promosse dal Granger movement fallirono.
Nel decennio successivo, il Granger Movement fu sostituito dal “Farmer’s Alliances”. Questa organizzazione si caratterizzò per la natura politica e per la elaborazione di programmi economici; l’iniziale programma politico aveva la finalità di “unire i contadini d’America per proteggerli dalla legislazione classista e dall’invasione dei trusts industriali”. Il programma economico chiedeva la nazionalizzazione delle ferrovie e l’abbassamento delle tariffe.
Nel 1890, il livello di sofferenza agraria raggiunse il massimo storico, sia per una ripetuta siccità, che devastò i terreni agricoli dell’ovest statunitense, sia per l’attuazione della imposta definita “McKinley Tariff”; una legge che impose aumenti delle tariffe doganali che, in particolare, finirono per gravare sulla importazione di macchine agricole ed, inoltre, ebbero l’effetto di fare aumentare i prezzi al dettaglio, provocando un malcontento generale in tutto il Paese. Per cui, le “Farmer’s Alliances” si unirono ad esponenti del partito democratico, fondando il “People’s Party” (Partito populistico). Questo partito si impegnò a tutelare non solo gli interessi dei farmers, ma accolse anche le rivendicazioni della classe operaia, alleandosi con l’American Federation of Labour.
Le istanze principali del partito populista furono: a) il conio libero dell’argento, penalizzato dal cambio aureo; la produzione di argento avrebbe messo in circolazione più denaro e, quindi, alzato i prezzi agricoli; b) la nazionalizzazione delle ferrovie, telegrafi e telefoni (per avere tariffe meno esose e più eque; c) la facilitazione dei prestiti per gli agricoltori; d) il controllo federale dell’economia e la lotta ai trust industriali e federali.
Il momento di massima influenza del Partito Populista si registrò alle elezioni del 1896, nelle quali il loro candidato William Bryan si alleò ai democratici sulla base del programma populista.
Ma la vittoria del repubblicano McKinley segnò la crisi del movimento populista e il trionfo dei valori del capitalismo.

Quarta parte
L’era progressista – Negli Stati Uniti, patria dell’individualismo selvaggio e dello stato minimo, a fronte di una finanza che aveva esteso il suo controllo tentacolare sulla macchina politica locale e federale, nacque, tra il 1800 ed il 1900, un movimento definito progressista che pose in dubbio il paradigma antistatalista e liberale che fino a quel momento aveva ispirato l’economia americana.
Il progressismo negli Stati Uniti fu un grande movimento di riforma che raggiunse il suo apice agli inizi del XX secolo (1901-1917) durante le presidenze di Theodore Roosvelt e di Woodrow Wilson. Esso affrontò i problemi di una società dove, secondo il teorico del darwinismo sociale, William Graham Sumner, ciascun individuo competeva con l’altro per prevalere in un contesto economico che si sviluppò in maniera impetuosa, affrancato dai controlli federali e trascurando i fondamenti della giustizia sociale. La stessa politica appariva inerme di fronte allo strapotere dei trust, per cui occorreva che si concretizzasse una riforma voluta fortemente dalla classe media ed in particolare da un gruppo di intellettuali, in risposta al disagio sociale conseguente al vasto cambiamento provocato dalla modernizzazione, ed allo smisurato fenomeno della corruzione all’interno della politica americana. I progressisti americani furono un importante gruppo di pressione che unì riformatori di estrazione ideologica e culturale diversa come il sociologo Ross, i filosofi John Dewey e William James, politici repubblicani come Theodore Roosevelt e William Howard Taft e democratici come Woodrow Wilson.
Benjamin De Witt, nel libro “The Progressive Movement”, individuò tre diverse tendenze riformatrici , già presenti negli anni precedenti nei primi fermenti riformatori che avevano contrassegnato la società americana ed espressi da alcuni industriali e dalle Chiese evangeliche. La prima di queste tendenze era espressione della volontà degli uomini migliori di tutti i partiti i quali sostenevano l’abolizione di “ogni tipo di influenza corrotta o legata a interessi particolari o di minoranze” all’interno del governo federale, statale e locale. La seconda tendenza consisteva nel prevedere alcuni mutamenti nella struttura e nel metodo di governo tale da permettere la possibilità di un ampio controllo. La terza tendenza originava dalla convinzione che il governo avesse compiti ridotti e che, pertanto, essi dovessero essere amplificati e finalizzati per alleviare i disagi economici e sociali.
I principali fondamenti del movimento progressista furono, quindi, incentrati sul bisogno di efficienza in tutti i settori sociali.
Le più importanti realizzazioni furono:
• L’intervento dello stato federale nell’economia al fine di regolamentarla (nasce la Food and Drug Administration e la Federal Reserve).
• La lotta alla corruzione politica e al potere dei trust.
• L’eliminazione degli sprechi, dell’inefficienza e del disordine nella gestione delle risorse pubbliche.
• La tutela ambientale.
• La promozione del benessere generale e quindi la prevalenza degli interessi pubblici su quelle individuali.
• La concessione del voto alle donne.
• Lo sviluppo dell’istruzione.
• L’elezione diretta dei senatori.
In sintesi, senza entrare nei dettagli, queste trasformazioni economico-finanziarie e socio-politiche che caratterizzarono l’azione di riforma della politica progressista, indubbiamente costituirono la base per la nascita di uno stato moderno.
Ciò che è importante rilevare, però, è che tale movimento non fu il riflesso della ventata ideologica socialista che ormai soffiava sull’Europa, ma fu piuttosto espressione di un recupero di quei valori sociali propri delle Chiese protestanti evangeliche, che in quel momento storico si inverarono nel movimento del “Cristianesimo sociale” definito in seguito “Social Gospel” (Vangelo sociale).
Sin dagli inizi del 1800 tale movimento fu una risposta alla rapida urbanizzazione, alla industrializzazione ed alla immigrazione di massa. I pastori protestanti si interessarono sia ad assicurare la giustizia sociale per i poveri, sia a diffondere il messaggio della Chiesa protestante nelle città, dove la Chiesa cattolica romana era particolarmente popolare presso la enorme popolazione degli immigrati. La finalità di questo movimento fu quella di applicare l’etica cristiana ai problemi sociali e, pertanto, quello di creare una società democratica equa, tale da garantire il miglioramento delle condizioni sociali e l’acquisizione dei diritti civili e politici.
Una delle personalità di spicco di questo movimento fu Jane Adams, scrittrice, pacifista, premio Nobel per la Pace nel 1931 che fondò a Chicago “Il Social Settlement Hull House”, sorta di comunità che accoglieva, assisteva ed avviava al lavoro gli immigrati e gli emarginati dei sobborghi industriali.
Lo scrittore inglese G. K. Chesterton, alla fine del 19° secolo, aveva definito gli Stati Uniti “una nazione con l’anima di una chiesa”.

Quinta parte
Storia della filantropia americana
– L’evoluzione sociopolitica che caratterizzò il periodo compreso tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900 influenzò anche la concezione della filantropia negli USA. Io non affronterò l’argomento riguardante la differenza tra la filantropia, l’idea cristiana della Caritas e quella ebraica della Zedakà, ma mi limiterò a parlare del mutamento concettuale ed operativo della filantropia proprio negli Stati Uniti, seguendo il filo degli eventi storici. In Inghilterra alla fine del 16° secolo, la regina Elisabetta I, promulgò le “Poor Laws”, le leggi in favore dei poveri; l’idea della carità e della filantropia rientravano in quella concezione più ampia di una ordinamento giuridico della giustizia sociale. Gli Inglesi, quindi, andando a fondare le colonie in America, portarono con loro questa cultura della giustizia sociale.
Infatti, come già detto in precedenza, il paradigma fondativo degli Stati Uniti trova la sua genesi storica in quel gruppo di puritani che, fuggendo dall’Inghilterra, in seguito alle persecuzioni religiose, approdarono sulle coste del Nord America.
Il ”Model of Christian Charity”, è tratto da una frase di un famoso sermone di John Winthrop, leader dei puritani della seconda ondata migratoria del 1630, in cui sfidava i suoi compagni puritani a costruire un modello di comunità ideale fondata sulla fratellanza e sulla solidarietà che sarebbe dovuta servire da esempio per il resto del mondo, che avrebbe dovuto ordinare la propria esistenza su questi principi da cui doveva nascere la nuova società evangelica.
Inoltre, il sermone di Winthrop costituisce, ancora oggi, il fondamento ideologico dell’“Eccezionalismo” americano che ha dominato e domina, tutt’oggi, la storia e la cultura americana. Ma questa è tutt’altra storia!
La concezione stessa della filantropia subì l’influenza del mutamento sociale: inizialmente essa si identificò nella solidarietà diretta, la cosiddetta solidarietà di frontiera che riguardava la relazione tra vicini che si aiutavano tra loro. Ognuno si prendeva cura dei bisogni dell’altro, come ad esempio aiutare a costruire una stalla o un fienile bruciato o aiutare a seminare il terreno quando l’agricoltore possidente era ammalato.
Con la crescita economica ed industriale le cose cambiarono; si creò un associazionismo costituito da “businessmen club”, che, conservando la tradizione britannica, era caratterizzato da una forte impronta massonica. Nel XIX secolo in America, quando un uomo cercava amicizia e voleva acquisire un ruolo sociale all’interno della propria comunità, entrava in una delle logge della fratellanza. In quel periodo, milioni di uomini della classe media americana confluirono in queste organizzazioni che affermavano, attraverso un rituale segreto, una fratellanza simbolica. Queste organizzazioni definite Massoniche, o simil-massoniche come gli Odd-Fellows, i Cavalieri di Pizia, i Redmen, i Macabee, i Mystic Workers, e i Noble Woodmen, si riunivano indossando insegne esotiche, utilizzando solennemente frasi criptiche. In questi club venivano trattati prevalentemente affari, mentre la beneficenza diventava una fatto residuale. Contemporaneamente si verificò un altro fenomeno! Poiché le donne non erano ammesse in questi club, dal 1850 si costituirono numerosi club femminili con notevole caratteristica culturale.
Questi club contrastarono i club maschili ritenendo che quei principi della fratellanza e della segretezza erano antitetici ai principi etici del cristianesimo.
Con il passare del tempo, i club femminili si resero conto che l’aiuto ed il sostegno al singolo non erano sufficienti a risolvere il problema della povertà e del bisogno.
La beneficenza nell’ottica della crescita dell’intera comunità non era produttiva. Per cui, l’attenzione si spostò dalla beneficenza nei confronti dei bisognosi alla promozione del benessere della comunità in generale. Secondo quanto riportato da Jeffrey Charles nel suo libro “I club service nella Società americana”, l’idea del service (sintesi del termine Social service) fu proposta nel 1899 durante la prima Convention nazionale, da alcuni club femminili (Club Sorosis) ed in seguito da loro attuata.
I club Rotary, Kiwanis e Lions adottarono questa idea alcuni anni dopo, ed in seguito, grazie a questa idea vincente, si espansero notevolmente e si adoperarono attivamente per il miglioramento della comunità.
Sempre secondo Jeffrey Charles, l’attività dei club service si rilevò come una risposta progressista agli avvenimenti del XX secolo ed i soci condivisero molti principi progressisti, promuovendo progetti che garantivano l’ordine in nome della giustizia sociale.
Nel suo libro “La filantropia in America. Una Storia”, Olivier Zunz definì popolare o di massa questo tipo di filantropia in confronto alla cosiddetta filantropia della big money che veniva promossa da industriali e benestanti americani. Il maggior promotore fu Andrew Carnegie che insieme ad altri grandi industriali quali Rockefeller, Ford, Sage ed altri ancora, contribuirono alla realizzazione di un grande progetto filantropico che portò alla costituzione di importanti fondazioni attraverso le quali fu possibile finanziare e realizzare teatri, scuole, università, ospedali. La loro innovazione fu di concepire i fondi filantropici come investimenti finanziari e di considerare la filantropia americana una impresa capitalistica tesa al miglioramento sociale.
Questo tipo di filantropia, definita anche scientifica, è ancora oggi molto diffusa negli Stati Uniti; basti pensare alla fondazione di Bill e Melinda Gates con la quale abbiamo collaborato per la vaccinazione contro il morbillo.

Sesta parte
Il ruolo della Chiesa cattolica – A questo punto della storia v’è da chiedersi: ci fu e quale fu il ruolo della Chiesa cattolica in questo particolare periodo del cambiamento della società americana? Quale fu l’atteggiamento dei cattolici americani nei confronti del capitalismo? E’ vero che l’America non conobbe l’influenza del socialismo grazie all’opera di mediazione di cattolici della statura di Gibbons, Ireland e Keane?
Va subito detto che la grande esperienza umana del cattolicesimo americano, non ha mai avuto in Europa una vasta eco; ciò per due motivi: da un lato la condanna da parte della Curia Romana del cosiddetto modernismo o americanismo cattolico e dall’altro, un certo disprezzo, nel vecchio mondo, verso la cultura americana.
In realtà lo sviluppo della Chiesa cattolica in America, corrispondeva in quegli anni ad un momento critico per la Chiesa romana. Siamo intorno al 1870, allorquando la Chiesa perdeva il potere temporale e politicamente assumeva una posizione antiliberale e antidemocratica.
Secondo quanto riportato dallo storico americano Aaron I. Abell, nel suo saggio “American catholicism and social action”, negli anni successivi alla guerra civile negli Stati Uniti si assistette ad una crescita esponenziale del cattolicesimo, favorito dalla massiccia immigrazione dall’Europa e dal notevole contributo offerto dalla Chiesa cattolica al movimento per la giustizia sociale.
Più che il numero fu la leadership, la intellettualità di alcuni religiosi che contribuì allo sviluppo del Cattolicesimo. Nel Primo Concilio Plenario, tenutosi a Baltimora nel 1852, i vescovi affermarono “Noi cattolici non solo dobbiamo erigere la Chiesa, il Seminario e la Scuola, ma dobbiamo fondare Ospedali, istituire Orfanotrofi e provvedere a tutti i bisogni dell’umanità sofferente”.
In questa attività umanitaria, ancora una volta diventò preminente una figura femminile: Elizabeth Bayley Seton, una vedova di New York, socialmente importante, che aveva costituito nel 1808 la sezione americana delle Suore della Carità che svilupparono importanti opere istituzionali di misericordia.
I grandi problemi sociali riguardanti i lavoratori, gli immigrati, secondo quanto affermato da Lucio Avagliano, nel suo saggio “Il cuore del capitalismo americano” indusse un cambiamento sia della cultura della Chiesa cattolica in senso americano e sia della sua attività missionaria, che possiamo così compendiare:
• Accettazione del principio liberale e democratico americano.
• Promozione dei diritti individuali.
• Favorire l’integrazione degli immigrati cattolici nella società americana.
• Promuovere piani di aiuto per gli orfani, le vedove, le persone indigenti.
• Dare impulso alla costruzione di ospedali e di scuole cattoliche.
• Fondare numerose organizzazioni del lavoro.
Spiritualisti come padre Hecker, fondatore della società di San Paolo, innovatori come John Ireland, arcivescovo di San Paolo, mediatori come il vescovo Keane, rettore dell’Università cattolica di Washington, riformatori sociali come Ryan, furono i fautori del cattolicesimo sociale negli USA. Questi prelati, unitamente ad un cattolico di grande statura quale il cardinale James Gibbons, propugnatore e difensore dei sindacati dei lavoratori e che collaborò alla stesura dell’enciclica “Rerum Novarum”, ebbero una notevole influenza sullo sviluppo sociale e culturale degli USA.
Nel 1917 Theodore Roosevelt salutò Gibbons come il più venerato, rispettato e utile cittadino americano.
H. L. Mencken, un grande giornalista di Baltimora, scrisse nel 1921 dopo la morte di Gibbons: “Più presidenti ricercarono il consiglio del cardinale Gibbons: era un uomo della più alta sagacia, un politico nel miglior senso della parola… spesso Roma fu contro di lui, ma alla fine ebbe sempre la meglio ed ebbe sempre ragione”.
Il ruolo della Chiesa nel cambiamento della società americana fu notevolmente incisivo. Sebbene minoritaria, la Chiesa cattolica risultò la più organizzata e la più influente dal punto di vista culturale rispetto ad altre organizzazioni riformate.

Settima parte
I principi ispiratori
– La breve analisi riguardante alcuni aspetti della storia, della cultura e dell’organizzazione sociale e politica degli Stai Uniti, ha consentito di identificare quei principi ispiratori che, con ogni probabilità, costituiscono il fondamento delle finalità dell’associazionismo di servizio in genere ed in particolare del Lionismo. Tali principi sono rappresentati essenzialmente dal principio di reciprocità, dal principio di buon governo e dal principio del bene comune.
Principio di reciprocità – E’ un principio che risale all’antichità, presente in molte religioni ed espresso in molte dottrine filosofiche; esso rappresenta il perno delle interrelazioni umane.
Gli antropologi Mauss e Malinowski ritengono che all’interno delle civiltà arcaiche esisteva già l’embrione di una azione umanitaria che si identificava nell’aiuto reciproco tra persone appartenenti alla stessa comunità, giustificato, pertanto, dal comune senso di appartenenza ad un territorio o, comunque, alla comunità stessa.
Il principio di reciprocità, definito anche regola d’oro, è un valore morale basilare che, secondo Marc H. Bornstein, “si riferisce all’equilibrio in un sistema interattivo tale che ciascuna parte ha diritti e doveri; la norma afferma che i diritti di ciascuno rappresentano un dovere per l’altro”. Essenzialmente esso consiste in un codice etico che garantisce a ciascuno il diritto a un trattamento giusto e il dovere di assicurare la giustizia agli altri. L’etica della reciprocità tra individui è il fondamento della legittimità, della giustizia e del rispetto tra individui.
In altri termini la reciprocità sta alla base della convivenza ed è un principio generale che investe l’intero consorzio civile in quanto esso è il fondamento dei rapporti di interrelazionalità tra individui, tra gruppi ed individuo, tra gruppi diversi, siano essi informali o formali.
Ciò ci fa rendere conto anche come esso sia imprescindibile dal concetto dell’associazionismo.
La reciprocità presenta, però, sfaccettature diverse, tanto da indurre Robert Putman a distinguere tra la reciprocità generalizzata: “Farò questo per te subito senza aspettarmi immediatamente nulla in cambio e forse anche senza conoscerti, confidando che lungo la strada tu, o qualcun altro, mi restituirete il favore” e la reciprocità specifica: “Farò questo per te se tu farai quello per me”.
Sempre secondo R. Putnam, una società caratterizzata da reciprocità generalizzata è più efficiente di una società in preda alla diffidenza.
Nel caso della reciprocità specifica, invece, trattasi in sostanza di una reciprocità basata su interessi personali e, pertanto, non ha alcuna implicazione etica. Per quanto attiene le associazioni di servizio, il principio di reciprocità è esplicitamente espresso in uno degli scopi del Kiwanis International “Incoraggiare l’uso quotidiano della Regola d’oro in tutte le relazioni umane”.
Invece, per quello che riguarda la nostra associazione, quando nei nostri scopi affermiamo “Prendere attivo interesse al bene civico, culturale, sociale e morale della comunità” viene fatto un chiaro riferimento al principio di reciprocità di David Hume riportato nel saggio “Ricerche sui principi della morale”. Egli dice “Tutti i nostri obblighi di fare il bene nella società sembrano implicare qualcosa di reciproco. Io ricevo i benefici dalla società e perciò devo promuovere i suoi interessi. La reciprocità, quindi, è la molla della socialità umana”.
Secondo il filosofo dell’utilitarismo, alla base della morale vi è la percezione dell’utilità sociale dei comportamenti, per cui la natura dell’uomo non può rimanere indifferente di fronte al benessere dei suoi simili. Pertanto, il benessere e la felicità individuale sono simpateticamente uniti al benessere e alla felicità collettiva.
La morale, secondo Hume, è ciò che rende gli uomini felici.